Qualche anno fa, un gruppo di comiche si sono inventate un geniale momento di stand up comedy nato dal pregiudizio che “le donne non fanno ridere”, quando un collega maschio stand up comedian disse: “Questa sera devo andare a vedere una serata di comicità con solo donne. Che noia, le donne non fanno ridere… Ma almeno c’è figa”. A riprendere questo concetto, sull’asse Torino-Milano-Bologna, c’è Serena Bongiovanni che cavalca la medesima tendenza. Mircea Masserini l’ha incontrata per chiarire che:
Noi, al patriarcato, gli ridiamo in faccia perché è anche così che si combattono gli stereotipi di genere.
Generalizzando, le presenze femminili sul palcoscenico si dividono nella seguente tassonomia:
- La musicista seria, parte di un’orchestra ma mai primo violino (alla Berliner ci sono voluti 140 per farne arrivare una, in tempi recenti) e, altrettanto raramente, direttrice.
- L’artista tollerata nel suo “ruolo” di ribelle tutta sesso, droga, rock & roll.
- La cantante di liscio o di musica folk, rassicurante come Orietta Berti.
- L’attrice relegata in ruoli leggeri.
- L’attrice, musa di un artista importante, che la piazza ovunque riesca.
- L’attrice impegnata, sul palco e fuori, tenuta in ostaggio dal proprio pubblico radical chic.
Stand up comedy: non solo territorio maschile
Tuttavia, nel sottobosco che anima la società italiana come un fenomeno carsico, si stanno conquistando un posto al sole anche le attrici di stand up comedy. È sempre stato territorio maschile, come racconta in qualche modo anche “The Marvelous Mrs Maisel” – perché, beh, le donne non fanno ridere – ma, battuta, dopo battuta, anche questo muro si sta sgretolando.
La torinese che molla il posto fisso per farti ridere
Dalla Torino tanto educata quanto “falsa e cortese” – come recita uno storico pregiudizio su una città tremendamente chic – emerge Serena Bongiovanni. Lei, fresca di formazione classica, abbandona ventiquattrenne un posto fisso presso una celebre e rispettata società assicurativa – con relativo e comprensibile colpo al cuore della famiglia – per dedicarsi a tempo pieno allo spettacolo, fatto però a modo suo.
Come hai capito, tra l’altro molto giovane, che il teatro era la tua strada?»
Ti dirò, per me è stato molto facile, perché la parte più bella del vecchio lavoro d’ufficio erano le telefonate alle persone. Comunicavo questioni importanti ma suscitavo il riso e dunque, insieme alle brutte notizie, prevaleva l’aspetto comico.
Poi sapendo che per fare bene le cose bisogna studiare, ho preso un master nell’organizzazione di eventi, ho lavorato per agenzie e per nomi importanti della moda per approdare, infine, in una fondazione culturale.
Pare che la tua professione sia una tra le più stressanti dopo quelle mediche: sei malata d’adrenalina?
Lo confesso, ho bisogno di movimento; ritengo il lavorare otto ore dietro una scrivania una punizione degna dell’Inferno dantesco. E poi sentivo che mi mancava ancora qualcosa.
Ti mancava di nuovo la parte comica del lavoro?
Ho sempre fatto teatro di prosa, dieci anni di improvvisazione teatrale. Poi mi sono buttata nella stand up comedy e ho capito che eravamo fatte per stare insieme. Ho iniziato a praticarla in modo informale, senza investire tempo in modo sistematico, però vedevo che continuavo a crescere.»
Come hai affrontato il mondo prettamente maschile della stand up comedy?
Con Ellen Degeneres e alcune altre sparute presenze a poco a poco qualcosa è cambiato, ma la proporzione è spietata; forse possiamo parlare di una ratio 80/20%, se non addirittura 15%, almeno in Italia. Negli Usa le donne stanno raccogliendo molto successo– anche grazie agli spazi concessi da Netflix – ma in ogni caso siamo una netta minoranza.
Dal lato del pubblico, in generale ti posso dire che le donne seguono artisti di qualsiasi genere, mentre il pubblico maschile segue, in modo netto e marcato, in schiacciante prevalenza, attori uomini.
Il pregiudizio che la donna o non fa ridere o parla solo di trucchi e di “quelle cose lì” è duro da scalfire?
Esatto, lo osservo anche nel corso dei miei spettacoli; la base che mi segue, alla quale sarò eternamente grata – è prettamente femminile. Mi sono confrontata con altre colleghe che mi hanno confermato la stessa esperienza. Ovviamente, poi, ci sono uomini che non rientrano nello schema. Una volta sentii una critica che mi lasciò di stucco: un giovane che mi fece i complimenti dopo lo spettacolo e che mi disse “bello, brava ma la parte sulle mestruazioni non mi è piaciuta perché non mi ci identifico”. È come dire che non guardo un uomo performare perché uriniamo in modo diverso e dunque eventuali battute “non le posso capire”.
Credi ci sia una “discriminazione preventiva” quando vengono stilati i cartelloni?
Devo dire che per ora sono stati tutti molto garbati e attenti; non ho percepito la cosa, anzi, tendono ad essere equilibrati. Tuttavia, penso che prima di tutto sia importante la qualità dell’offerta del cartellone, al di là della questione di genere, una questione meritocratica insomma.
Ci parli in po’ di TAC, l’associazione culturale di cui fai parte?
Mi piace molto insegnare e, infatti, tengo anche un corso di storytelling basato su esperienze passate che consiste nella lettura comica dei diari scritti da adolescenti. Oltre che divertente, è terapeutico: aiutano a liberarsi di quel bagaglio che ci appesantisce ma che comunque ci si porta dietro.».
Hai un tipo di comicità molto salace, nonostante “non stia bene che le ragazze dicano le parolacce! “
Il mio obiettivo sul palco è disturbare. Ci sono argomenti che tutti abbiamo in mente ed ai quali tutti pensiamo ma ai quali non diamo voce, perché socialmente non è accettabile. Ad esempio, il sesso: tutti lo fanno, è democratico, è naturale. Un altro tabù riguarda la morte, tutti ne abbiamo avuto una esperienza più o meno diretta e ne abbiamo paura: parlarne è catartico. Mi piace, quando sono sul palco e ho appena fatto una battuta magari un po’ più macabra delle altre, vedere che il pubblico si immedesima. Ecco, è una vittoria. Mi piace parlare di cose scomode: sta riscuotendo molto successo, specie con le donne. Parlare a mezza voce, lavorare al 50% delle proprie potenzialità per non oscurare la controparte maschile, non dire le parolacce: per me, rappresentare tutto questo, è un atto politico.
Concordi con Murgia, quando disse “la cosa più rivoluzionaria che può fare una donna è parlare”?
Esattamente. A volte mi capita che certi uomini, ma anche qualche donna, mi contattino per rimproverarmi le volgarità, adducendo pretesti quali “ma se ti sentissero i tuoi genitori”. Solitamente rispondo: “perché non lo dici anche ad un mio collega maschio”? La stand up comedy è vita reale, senza filtri e in questo senso rappresenta bene la vita vera: tutti diciamo le parolacce, tutti siamo scomodi a modo nostro e io voglio rappresentare questo.
Com’è il tuo rapporto con il pubblico?
Durante gli spettacoli mi piace improvvisare e quando passo alla parte in cui interagisco con la platea e – per far ridere – prendo in giro qualcuno del pubblico, vedo un gran desiderio di “sentirsi vulnerabili” in un momento storico in cui la prestazione. È un momento catartico, fa bena, è un modo per tirare il fiato, è ossigeno.