Antonio Colombo presenta nella sua galleria milanese Alchimie nel Vuoto, la prima mostra personale di Elena Salmistraro, a cura di Silvana Annicchiarico.
Nata nel 1983 a Milano, Elena Salmistraro è designer e artista. Laureata in Fashion Design e in Industrial Design presso il Politecnico di Milano, ha fondato – nel 2009 con l’architetto Angelo Stoli – lo studio in cui lavora a progetti che spaziano tra arte, design e moda.
Per questa mostra, Salmistraro sceglie di esprimersi prevalentemente attraverso il disegno e la pittura, mettendo in luce il lato più profondo e artistico del suo lavoro, aprendoci le porte di un mondo fantastico, popolato da figure curiose come il mostro Gennaro. Il disegno è un gesto intimo e primordiale, un atto che per l’artista diventa terapia; disegnare è passione, ossessione, necessità e creazione di un proprio universo.
La galleria si presenta come uno spazio pulito, un involucro nudo con pareti bianche e asettiche, il vuoto ospita mostri, freaks, incubi e paure – forse superate, simboli di cambiamento e integrazione, e manifesti di un nuovo concetto di bellezza.
“I miei mostri non sono cattivi, mi accompagnano, mi parlano, mi sono vicini…E a furia di disegnarli ho anche capito la mia cifra stilistica, il mio tratto, alfabeto e linguaggio.”
Oltre ai grandi dipinti su tela, viene presentato un tappeto prodotto da TaiPing, due totem e tre vasi realizzati da Bosa Ceramiche dipinti a mano dall’artista, e una scultura lignea prodotta da Scapin, tutte opere che nascono da una riflessione personale e artistica che si è maturata nel corso degli anni.
L’intervista a Elena Salmistraro
Elena Salmistraro ci invita a esplorare il suo universo artistico, popolato da mostri e freaks che sfidano i confini tra umano e animale, figurazione e astrazione. Affronta temi complessi come la paura, l’assenza e la trasformazione, usando l’Horror Vacui – la paura del vuoto – come punto di partenza per creare un flusso continuo di colori e segni. La sua mostra Alchimie nel Vuoto è un’occasione per riflettere su come il vuoto possa diventare un terreno fertile per la rivelazione creativa, trasformando l’assenza in un potenziale infinito.
I mostri, che Salmistraro disegna fin da piccola, rappresentano le sue paure, ma anche la possibilità di trasformazione e accettazione. In questa conversazione, l’artista ci racconta come il disegno sia per lei una forma di terapia, un modo per esplorare le sue emozioni e per definire un linguaggio visivo unico. Attraverso le sue opere, Salmistraro esplora anche il rapporto tra arte e design, raccontando come le collaborazioni con marchi globali come Alessi e Nike influenzino e arricchiscano il suo lavoro, mantenendo sempre una coerenza narrativa profonda.
Qual è il significato personale e artistico dietro al titolo della mostra Alchimie nel Vuoto? Come questo concetto si riflette nelle tue opere?
Il titolo della mostra “Alchimie nel Vuoto” nasce dall’intuizione della curatrice Silvana Annicchiarico, che è riuscita a cogliere l’essenza del mio lavoro e a restituirla con grande lucidità. Mi ha permesso di prendere coscienza di una pratica che, spesso, mi sembra fluida e priva di una direzione definita. Silvana ha messo ordine in questo processo creativo, riconoscendo una coerenza che io stessa non avevo pienamente consapevolezza di possedere.
“Alchimie nel Vuoto” rappresenta la mia personale sfida all’assenza, al vuoto, inteso non solo in senso fisico ma anche spirituale e concettuale. In questo spazio vuoto, che può sembrare privo di significato, intervengo con linee, forme e colori per riempirlo, per saziare questi spazi vuoti fino a farli esplodere, dando vita a qualcosa di nuovo, ricco e magico. Le opere esposte nella mostra sono il risultato di questo processo trasformativo, dove il vuoto diventa il punto di partenza per una rivelazione creativa che trasforma l’assenza in una potenzialità infinita.
Come descriveresti il ruolo di mostri e freaks nella tua poetica e nella tua crescita personale?
Il ruolo di mostri e dei freaks nel mio lavoro e nella mia crescita personale è strettamente legato alla mia infanzia. Sono sempre stata una bambina paurosa, ma con una curiosa fascinazione per l’horror e per tutto ciò che poteva incutere timore. Mi ricordo di quei film che cercavo di vedere di nascosto, nonostante mi fossero vietati dai miei genitori, ma che poi interrompevo per la paura e per passare notti insonni.
Con il tempo, però, il disegno è diventato uno strumento per affrontare queste paure e immaginare nuovi mostri, trasformarli attraverso forme e colori, rendendoli amici. Questo approccio istintivo mi ha aperto le porte di un mondo fantastico, dove ciò che mi spaventava poteva diventare un essere nuovo, meraviglioso e familiare. Così non solo ho imparato a convivere con le mie paure, ma ho anche scoperto un mio linguaggio espressivo, che continua a segnare il mio lavoro.
In un certo senso i mostri e i freaks, non sono solo simboli di ciò che mi spaventa, ma sono diventati anche la possibilità di trasformazione, accettazione e dialogo con il mio lato più nascosto e intimo.
Hai detto che il disegno per te è una forma di terapia. Puoi raccontarci come questo processo creativo ti ha aiutata ad affrontare le tue paure e a definire il tuo linguaggio artistico?
Come dicevo prima, il disegno, è sempre stato una forma di dialogo interiore, un momento di connessione profonda con me stessa; quindi, lo definisco una sorta di terapia, perché diventa anche un processo di esorcizzazione delle paure e delle emozioni.
Negli anni, i “mostri” che popolavano il mio immaginario si sono trasformati ed evoluti perché, se inizialmente erano ispirati da quelli visti nei film – come ad esempio “Gennaro” che prende forma dal mostro della laguna – poi hanno gradualmente assunto forme sempre più personali, diventando rappresentazioni simboliche di emozioni e insicurezze.
Poi c’è da dire che la pittura e il disegno in generale, sono pratiche che mi rilassano moltissimo e mi permettono di esplorare questi temi con sincerità. Questo mi ha aiutata non solo a comprendermi meglio, ma anche a definire il mio linguaggio, perché ad ogni emozione cerco di far corrispondere un colore, e ad ogni forma attribuisco un significato.
In questa mostra, ad esempio, ho affrontato temi come l’accettazione di sé, sia fisica che emotiva, penso ad esempio alla “donna cannone” o il “lillipuziano” che non sono solo figure iconografiche, ma vere e proprie manifestazioni di stati d’animo che fanno riflettere sull’essenza del nostro essere.
La tua estetica attinge a influenze come il neo-primitivismo, il surrealismo e il realismo magico. Come integri queste correnti nel tuo lavoro e come influenzano la tua visione del design?
In realtà la mia estetica non segue un metodo rigido, anzi direi che è piuttosto frutto di un atteggiamento istintivo. Mi piace attingere, ripetere ed elaborare, ciò che vedo e che mi affascina, ciò che sento più affine a me. Con il tempo ho imparato ad accettare e sfruttare questo approccio, che è diventato parte integrante del mio lavoro.
Faccio un esempio, da piccoli, tendiamo ad apprezzare il bel disegno, quello realistico, con le proporzioni corrette e tutte le ombre al posto giusto, ma solo dopo un’evoluzione personale e stilistica, si riesce a comprendere e sviluppare un legame più profondo con le forme e i colori, che non sono più solo la risposta ad un concetto estetico, ma diventano riflesso ed espressione di affinità più intime. È questo ciò che arricchisce, che stimola e che rende unico, ed è ciò che appunto definiamo “influenze” e che quindi ci permettono di esplorare nuove dimensioni, nel mio caso anche nel design.
È un po’ come scegliere i vestiti, ci si trova a proprio agio con ciò che rispecchia la propria essenza, con forme e colori che non sono solo scelti per la loro bellezza, ma anche per un legame emotivo che si crea.
La mostra include una varietà di opere, dai dipinti su tela a tappeti e sculture. Come si è evoluto il tuo processo creativo nel passare da un medium all’altro e cosa ti spinge a sperimentare materiali diversi?
La scelta di includere una varietà di opere è stata pensata e condivisa anche con Silvana, perché volevamo mettere in luce un aspetto del mio lavoro meno conosciuto. Nel design, il mio lavoro è ormai riconoscibile, ma questa era la prima volta che portavo in scena il lato più intimo e spontaneo di me, e quindi volevamo raccontare ed evidenziare come le immagini, le forme e i colori che nascono sulla tela potessero vivere e prendere forma oltre il loro supporto originale, trasponendosi su materiali e media differenti, pur mantenendo un legame forte con il mio linguaggio.
È stata anche una sorta di opportunità per raccontare il dietro le quinte, il pre, di quello che le persone già conoscono e che rispetto a ciò che si vede nella mostra, arriva filtrato, semplificato e adattato alle logiche dell’industria.
In questa mostra ho potuto presentare il nucleo originario delle idee, prima che vengano trasformate e che poi attraverso un percorso di sperimentazione su materiali diversi, dà vita ad oggetti che non sono confinati, ma che possano evolversi e adattarsi, mantenendo però una coerenza narrativa e visiva.
Hai collaborato con importanti aziende come Alessi, Apple e Nike. Come bilanci il tuo lato artistico più intimo con le richieste di collaborazioni commerciali? In che modo queste esperienze arricchiscono il tuo lavoro?
Collaborare con grandi aziende è un viaggio affascinante e ricco di stimoli, mentre la mia parte artistica più intima, come ho detto prima, è una necessità, un bisogno profondo che spesso scelgo di mantenere completamente libero dalle logiche lavorative. Prima di questa mostra, ad esempio, ho tenuto le mie tele quasi del tutto segrete, perché rappresentano uno spazio personale e incondizionato di pura espressione.
Non si può negare che il lavoro con le aziende richiede inevitabilmente un confronto fatto di richieste specifiche e logiche produttive, ma comunque non percepisco un vero distacco tra queste due anime di me stessa. Anzi, credo che convivano e si arricchiscano a vicenda, anche se nell’approccio al design, c’è sempre l’obiettivo di migliorare o risolvere un problema, mentre nell’arte questa necessità viene meno perché è pura espressione.
La parte più interessante, però è trovare il giusto equilibrio, riuscire a fondere le diverse discipline in modo armonioso, ed in questo, lavorare con le aziende è una straordinaria opportunità per sperimentare e tentare di introdurre un approccio artistico negli oggetti di uso quotidiano. Sono esperienze che arricchiscono, offrendo continuamente nuove prospettive e spunti creativi che poi ritornano anche nell’arte più personale.
Chi è Elena Salmistraro
Laureata in Fashion Design e in Industrial Design presso il Politecnico di Milano, Elena Salmistraro ha fondato nel 2009 il suo studio con l’architetto Angelo Stoli, lavorando a progetti che spaziano tra arte, design e moda.
ll suo stile si distingue per l’uso di texture tridimensionali e colori vivaci, fondendo arte e design. Ha collaborato con importanti aziende come Alessi, Apple, Bosa, e Nike. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti, e nel 2022 viene premiata con l’importantissimo “Frame Design Award” come “Best Designer” dalla rivista internazionale di architettura e design Frame, e dal 2017 è Ambasciatrice Mondiale del Design Italiano. Le sue opere sono state esposte nelle principali fiere di settore italiane e internazionali e in alcuni dei più importanti musei, come la Triennale Design Museum, il Guggenheim di Venezia, l’ADI Design Museum, la Pinacoteca di Brera. Partecipa a TEDx di Padova nel 2022 e nel 2023 Forbes Italia la inserisce tra le 100 donne di successo dell’anno. Oltre alla sua attività creativa, insegna Design presso realtà come il Politecnico di Milano e l’Istituto Marangoni.
La mostra
Elena Salmistraro – Alchimie nel vuoto
Via Solferino 44, Milano
28 novembre 2024 – 8 febbraio 2025