Arte e identità

La damnatio figurae nell’epoca della presenza social

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Dal 19 giugno a Padova, alla Fondazione Alberto Peruzzo, la mostra Damnatio Figurae mette in crisi il selfie compulsivo e riscopre il potere del volto nascosto. Tra Warhol, Casorati, Samorì e Cattelan, un’occasione per guardarsi allo specchio e riflettere sulla sovraesposizione digitale.

Tra esibizionismo e iconoclastia

Nell’epoca del selfie, dei filtri leviganti, delle stories che scompaiono dopo 24 ore ma restano scolpite nella mente, nel mondo in cui l’immagine è tutto troppo, c’è ancora spazio per un volto che sceglie di non farsi vedere? La mostra Damnatio Figurae della Fondazione Alberto Peruzzo prova a rispondere a questa domanda, articolando un percorso visivo che si muove tra presenza e assenza, tra eccesso e sottrazione.

Curata da Marco Trevisan, la rassegna padovana prende il via da un’opera silenziosa e potentissima: Senza Titolo (1996) di Jannis Kounellis. Una croce laica alta quattro metri, un sacco di juta e un pugnale: nessuna figura, ma tutta la sofferenza del mondo. È da questa “poetica del segreto” che nasce il progetto, che riflette su cosa significa rappresentare un volto, celarlo, negarlo. Una riflessione che oggi suona attualissima, in tempi in cui non mostrarsi equivale quasi a un atto di ribellione.

Thorsten Brinkmann, Leonelle D’Ohro, 2009, C-print, 195 x 148 cm

L’anatema della presenza

Il titolo della mostra suona come un anatema. La “damnatio figurae” è ciò che accade quando la figura viene cancellata, rimossa, sfumata per scelta o per censura. Come spiega il curatore, Marco Trevisan, è un tema che riguarda non solo l’arte, ma anche la nostra vita quotidiana, sempre più mediata da immagini che ci sovraespongono e insieme ci distorcono.

Il termine “damnatio figurae” si riferisce a una negazione delle immagini, un tema che si ricollega a dibattiti storici non solo sull’iconoclastia, ma in generale sull’uso delle rappresentazioni visiveRiccardo Falcinelli in Visus (2024) per esempio discute di come le immagini possano essere sia potenti che problematiche, analizza il loro ruolo nella società, invita a riflettere su come le immagini delle persone possano essere manipolate e sull’impatto emotivo e sociale che ciò crea”. Marco Trevisan

Cosa succede quando un’opera d’arte sceglie di non mostrarci il volto? O ce lo mostra così trasformato da diventare irriconoscibile?

Nicola Samorì, Arco della sete, 2020, olio su tela, 150×200 cm 

La navata delle identità negate

Nello spazio dell’ex Chiesa di Sant’Agnese, oggi sede della Fondazione, la navata ospita opere che mettono in crisi il concetto stesso di ritratto. Aron Demetz scolpisce volti in legno e bronzo che sembrano sul punto di sparire, nascosti dietro materiali bruciati, rovinati, graffiati: identità che si autodistruggono per lasciare spazio all’interiorità.

Nicola Samorì parte dalla grande pittura barocca per sventrarla letteralmente, dando vita a volti smangiati, corrosi, che sembrano implodere nella tela. Thorsten Brinkmann, invece, si diverte a reinterpretare i ritratti rinascimentali usando oggetti quotidiani al posto del volto: un secchio in testa, un pezzo di stoffa, un giocattolo. I suoi personaggi non hanno volto ma ne hanno mille.


Aron Demetz, Advanced minorities, 2015
tiglio, 209x63x67 cm 

Mariano Sardón trasforma codici informatici in volti digitali, collaborando con neuroscienziati per far emergere le tracce dell’identità nei dati. L’assenza qui non è un buco: è un modo diverso di raccontare chi siamo.

La sacrestia dei volti

Se la navata si muove sul filo del mistero e della negazione, la sacrestia è il luogo in cui il ritratto torna a mostrarsi. I grandi nomi della Collezione Peruzzo dialogano tra loro in un gioco di specchi: Andy Warhol ritrae Elisabetta II con colori pop e pose regali, un’icona che diventa immagine seriale, quasi una figurina Panini. Accanto a lui, l’irriverente Endless la reinterpreta in chiave street art, e Enzo Fiore regala un autoritratto dell’artista con materiali organici.

Donald Baechler riduce volti e corpi a forme primarie, evocando un’infanzia simbolica e quasi mitologica. Felice Casorati propone figure femminili austere e immobili, immerse in silenzi pittorici che sembrano rubati a un sogno. Tom Wesselmann, invece, celebra la sensualità pop in Barbara and the Baby: un inno alla bellezza che non si prende troppo sul serio.

C’è anche Manolo Valdés, che lavora con materiali riciclati per creare ritratti che sembrano collage della memoria: volti stratificati, costruiti come fossero palinsesti visivi. E poi un Max Ernst che, in pieno surrealismo, ci regala una testa-palloncino che sembra avere ispirato un film di Tim Burton.

Cattelan chiude la partita

La provocazione di Maurizio Cattelan chiude la mostra e la partita. Il suo Stadium è un calcetto lungo sette metri, popolato da 22 giocatori: un’arena grottesca e teatrale in cui si combattono le identità collettive. Che ruolo sta giocando lo spettatore in questa partita chiamata società? Puoi partecipare anche tu al gioco o iscrivere la tua squadra.

Info Utili

Dove: Fondazione Alberto Peruzzo, Nuova Sant’Agnese, via Dante 63, Padova
Quando: 19 giugno – 5 ottobre 2025
Orari e Biglietti: consultare il sito della Fondazione per aggiornamenti

In uscita: il Quaderno della mostra con testi critici e approfondimenti sarà disponibile nel bookshop della Fondazione

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